Lo pensiamo, e dovrebbe essere così se la previdenza pubblica non avesse problemi di equilibrio tra entrate e uscite. Ma non è quello che accade nella realtà. Proviamo a capire di più dove vanno a finire i soldi che versiamo ogni anno all’Inps.
Come calcolare la pensione con il sistema contributivo
Il sistema contributivo si basa su un principio molto lineare: tanto versi, tanto ti ritrovi quando finirai di lavorare.
Per calcolare la pensione con il metodo di calcolo contributivo bisogna:
- individuare la retribuzione media annua;
- calcolare i contributi di ogni anno sulla base dell’aliquota di computo (33% per i dipendenti; 20% per gli autonomi; vigente anno per anno per gli iscritti alla gestione separata);
- fare la somma dei contributi per ottenere il montante contributivo rivalutati sulla base della variazione media quinquennale del PIL determinata dall’Istat;
- applicare al montante contributivo il coefficiente di trasformazione, che varia in funzione dell’età del lavoratore, e che è indicato nell’apposita tabella Inps.
Facciamo un esempio per capire come si calcola la pensione col sistema contributivo. Se un lavoratore dipendente ha un reddito medio di 35.000 euro, dobbiamo applicare a questa cifra l’aliquota di computo (33%). Dopo 30 anni avrà un montante contributivo pari a 346.500 euro (consideriamo pari a zero la variazione del Pil). A questo si applica il coefficiente che corrisponde ai 65 anni, 5,6%. La pensione sarà di 19.400 euro.
Una bella differenza rispetto al sistema di calcolo retributivo, che rapporta invece la pensione alla media delle retribuzioni o redditi degli ultimi 5 anni per i lavoratori dipendenti e degli ultimi 10 anni per i lavoratori autonomi. Con il retributivo, prima della riforma Fonero delle pensioni, anche se si guadagnava poco nei primi 30 anni, ma tantissimo negli ultimi 10, si andava in pensione prendendo più soldi di quelli versati.
Proprio questo è stata una delle cause della crescita smisurata della spesa per le pensioni, che ha indotto a optare per un sistema contributivo, che, in teoria, prevede che la pensione dipenda da quello che si è versato.
In teoria, appunto. Nella realtà non funziona proprio così.
Come funziona in realtà il sistema contributivo
Quello che versiamo ogni anno all’Inps o alla cassa di riferimento per i professionisti non è l’aliquota di computo, ma quella di finanziamento, che viene applicata sul reddito imponibile ai fini previdenziali. Le aliquote di finanziamento possono discostarsi da quelle di computo e variano a seconda dei profili professionali.
Per semplicità, consideriamo un lavoratore dipendente. Sul suo reddito lordo, la trattenuta previdenziale è del 9,19% per il Fondo pensioni. Ciò vuol dire che su una busta paga di 2.000 euro al mese, quasi 200 finiscono nelle casse dell’Inps.
Da parte sua, poi, il datore di lavoro,versa anche il 32% del reddito lordo, ovvero 600 euro per contributi previdenziali. In totale, ogni mese 800 euro non finiscono nelle tasche del lavoratore, ma sono versati per la previdenza.
Poco male, si dirà. Sono soldi che non si percepiscono oggi ma che finiscono accantonati in una sorta di “cassetta” previdenziale e che ritroveremo quando andremo in pensione.
Errato. Quegli 800 euro al mese prendono tutt’altra direzione: quella delle tasche di chi è in pensione oggi.
Questo perché l’Inps ha una doppia funzione:
- deve gestire i contributi versati dai lavoratori;
- deve pagare le pensioni di chi ha terminato di lavorare.
Come tutte le imprese che si rispettino, anche l’Inps deve far quadrare i conti bilanciando entrate e uscite. Nel 2013 l’Inps deve pagare 385 miliardi di euro a fronte di una previsione di versamenti contributivi di 275 miliardi. Anche sommando a questi i 25 miliardi di patrimonio netto che l’Inps aveva in cassa, mancano all’appello oltre 80 miliardi.
L’Inps dunque non ha in cassa, materialmente, dei soldi per pagare le pensioni: le uscite sono coperte dalla contribuzione annuale.
Chi versa i contributi, dunque, in realtà sta solo accumulando dei crediti verso l’Inps. Il sistema contributivo, in questo senso, diventa solo un metodo di calcolo della pensione. Concretamente, l’assegno che si percepirà dopo la pensione dipenderà comunque dai contributi versati dai lavoratori del futuro.
Un’amara scoperta per chi pensava di essere al riparo da ogni rischio e di aver già iniziato ad accantonare la sua pensione
Visto così, però, il sistema contributivo non sembra un buon affare perché:
- è più svantaggioso del sistema retributivo in termini di importo (70-80% del reddito col sistema retributivo, 55% del reddito col sistema contributivo);
- non elimina l’incertezza del sistema previdenziale pubblico.
Tutto dipende, infatti, dal rapporto tra lavoratori e pensionati. Se ci dovessero essere più pensionati che lavoratori, i conti non tornerebbero. Guardando la situazione occupazionale e demografica dell’Italia, l’ipotesi di un forte disequilibrio non è così remota:
- il tasso di disoccupazione è in crescita e tra i giovani ha superato il 40%;
- dal punto di vista demografico, non dimentichiamo il baby-boom degli anni ’60, che vuol dire che attorno al 2025 ci sarà un’ondata di pensionamenti e una conseguente riduzione di contributi.
Agire sul lato delle entrate, ovvero aumentare l’occupazione non è cosa semplice. Più facile pensare che si agirà sull’età pensionabile, innalzandolo (ma sarà solo un palliativo, perché il problema si riproporrebbe pochi anni dopo), o sui redditi da pensione, tagliando gli importi. Col rischio di trovarsi nell’assegno della pensione anche meno di quanto abbiamo versato, con buona pace del sistema contributivo.
Per informazioni: info@a1-life.eu.